Coerentemente con un contesto storico in cui la donna è diventata (o meglio sta diventando) a tutti gli effetti soggetto nella sfera pubblica, assistiamo sempre più spesso a narrazioni che mettono in dubbio questa ideologia. Una di queste è I Love Dick, serie breve prodotta da Amazon e creata da Jill Soloway, già nota per la saga familiare Transparent in cui l’autrice ha ampiamente dimostrato la sua sensibilità e la sua competenza teorica in fatto di gender studies e queer theory. I Love Dick prende le mosse dall’omonimo romanzo di Chris Kraus pubblicato inizialmente ben vent’anni fa che però, come nota tra gli altri Livia Manera sul Corriere, sta vivendo una riscoperta massiccia in virtù del clima generalizzato di interesse per le tematiche femministe di questi ultimi anni.
Così Elisa Cuter, studiosa, critica e amica, descrive la serie dell’anno per noi ragazze cattive. Ne parla sulla rivista Filmidee 22#, un buon punto di riferimento per la critica cinematografica, un bel progetto giovane e fresco nel vecchiume della critica italiana.
Più Alexander Portnoy che Madama Butterfly, Chris scopre una scorciatoia comune a tanti autori maschi per mantenere una forma di dominio e controllo anche nella perdita di sé rappresentata dall’ossessione erotica. Nell’idealizzazione del suo oggetto inaccessibile, Chris trova la fonte a cui abbeverare il suo ego ferito dall’insuccesso professionale, la forza per uscire da un matrimonio castrante e soprattutto trova una storia, una narrazione, trova, cioè, un modo per esprimersi. È il rapporto tra autore e musa, per una volta a generi invertiti. Il suo processo di soggettivazione passa attraverso l’oggettivazione feticistica dell’altro. In una delle tante lettere che scrive a Dick e con cui a un certo punto tappezza letteralmente la cittadina esponendosi al pubblico ludibrio e mettendo a nudo i suoi desideri in un gesto di rivalsa (ancora una volta autolesionista), afferma “I don’t care if you want me. It’s enough that I want you”. È una dichiarazione che in bocca a una donna suona liberatoria, ma che pronunciata da un uomo suonerebbe sinistra e minacciosa.
Dopo la nostra amata Fleabag e Good Girls Revolt (ahimè chiusa, o così pare) questa serie – meno semplice, più criptica e di nicchia, ma non per questo meno godibile – è la rivelazione dell’anno. Parole di @donneinmovimentoblog.
Segnaliamo inoltre un altro articolo di Eugenia Fattori ricco di link su Betty&Books.
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