Io ero in quarantena prima della vera quarantena. Perché sono una studentessa universitaria fuori tempo massimo. Quindi da gennaio a fine febbraio, periodo di sessione invernale, ero segregata tra ufficio e biblioteca. Ed ero infelice. Sentivo che il tempo correva senza che potessi cambiare le cose. Sveglia, colazione, make-up, combinazione di vestiti per sembrare meno grassa, ufficio, biblioteca, casa and repeat. 

Poi hanno iniziato con le prime chiusure: le scuole e in particolare la mia università, la casa di riposo di mia nonna, la biblioteca. Ma io proseguivo con la mia vita, segregata tra ufficio e casa. Nel giro di pochi giorni hanno iniziato a chiudere anche il Comune dove lavoro grazie allo smart working. Le mie colleghe lavoravano da casa, mentre io ancora mi recavo in ufficio nella desolazione delle loro scrivanie vuote. E sommavo le perdite di relazioni sociali una ad una. 

Infine è giunto il mio turno dello smart working. “Ok, sono a casa h24, e adesso?”. Il lavoro non mancava, quindi buona parte della giornata ce l’avevo impegnata. Intanto la mia psicologa (via Skype) mi aiutava a farmi amare il mio bucolocale visto che ci ero costretta per così tanto tempo. Sì, lo odio. È piccolo, è soffocante, è tipo la torre in cui vengono rinchiuse le principesse: all’ultimo piano e angusto. “Va bene, prometto che me ne prenderò un po’ più cura” ed è stato incredibilmente terapeutico. 

Ma sai che quasi quasi mi piace questa quarantena? Sto bene, dai, faccio quello che voglio, lavoro, mi godo il divano-letto più come divano e meno come letto in cui rannicchiarmi e sprofondare nella disperazione dell’inutilità della mia vita. Ho dato un esame online, che è stata un’esperienza indimenticabilmente surreale e al limite dell’isterismo. Sono riuscita a non uscire di casa per 19 giorni consecutivi ordinando la spesa online. Le mie amiche mi videochiamano e sono quasi sempre impegnata anche dopo il lavoro. A Pasqua ho pure pranzato con la mia famiglia su Whatsapp, troppo divertente! E ho ripreso gli allenamenti con i miei vecchi maestri di pugilato in diretta Instagram o Facebook. Anzi, credo che mi comprerò un sacco da appendere sul balcone per tirargli due pugni. Sto anche rispettando la dieta, figata! Quest’estate sarò una bomba…che nessuno mai vedrà. 

E qui cominciano i problemi. 

Sì, bello eh, ma poi leggo le notizie sul coronavirus e mi convinco che quest’anno ormai me lo sono giocato. A 34 anni non succederà niente di nuovo o esaltante. 

Prima di tutto sono saltati i 4 concerti a cui sarei dovuta andare quest’estate, una ferita insanabile. E poi, a conti fatti, sono più sola di prima, mentre le videochiamate iniziano a diradarsi e il lavoro è sempre più incalzante, con le scadenze che comincio a bucare e la fatica di non aver mai riposato tra sessione e nuovi incarichi. 

Ed ecco che il picco di dolore impenna vertiginosamente e mi ritrovo in una valle di lacrime di auto-commiserazione. Sono sola. Sono povera. Sono senza futuro. Sono una sfigata. E in aggiunta a tutto ciò, sento che la mia pelle è sul punto di esplodere per la voglia irrefrenabile di essere toccata, accarezzata, stretta in un abbraccio avvolgente. Sono quasi due anni che nessuno mi abbraccia solo per stringermi e la mia vita-in-quarantena prequarantena non ha aiutato.

“Stai nella tristezza”, mi dice la psicologa. E io sto. Non come d’autunno sugli alberi le foglie, ma come le bellissime gemme in primavera che quest’anno mi sono persa. Me le sono perse e qualcuno si è perso anche me, si è perso il mio essere gemma che chissà in quale primavera fiorirà.