Siamo all’inizio della quinta settimana di quarantena e ancora non ho ben capito come sto. La prima settimana è stata surreale, spaventosa ma anche bellissima, perché lui era qui con me.
Io non mi volevo fidanzare, e invece. In realtà, dicevo sempre che mi sarebbe tanto piaciuto avere un fidanzato con cui condividere la mia vita ma poi i potenziali fidanzati con cui mi ritrovavo a intrattenere relazioni più o meno instabili e nocive erano quasi sempre mezzi tossici, cocainomani, criminali agli arresti domiciliari, uomini già impegnati o semplicemente così immaturi da non avere nemmeno la vaga idea di che cosa potesse significare avere una relazione. Quindi, di fatto, anche se lo dicevo, non mi volevo davvero fidanzare, perché li sceglievo con cura, anzi con “il lanternino”, come diceva mia nonna, affinché avessero una dipendenza, un grave trauma emotivo mai affrontato o qualunque altro ostacolo oggettivo che impedisse loro di essere dei reali candidati. Era una strategia, perché avevo paura.
Poi è arrivato lui. Un abruzzese che per lavoro vive a Tokyo da sedici anni, sbucato dalle pieghe più recondite di Tinder. Sulla carta, la storia più improbabile che potessi mai attirare a me, perfetta per continuare ad attuare il mio piano di auto-sabotaggio. Invece no. Qualcosa è cambiato, qualcosa dentro di me ha fatto click, ma un click di quelli che disinnescano i meccanismi e aprono le dighe, e questa sembra avere tutte le caratteristiche di una relazione sana, adulta e costruttiva. Lui non si droga e non l’ha mai fatto, non fuma, non ha precedenti penali e fa sul serio. Incredibile. Certo, non è che poteva andare tutto liscio, mi sono infilata in una long distance relationship, dove la long distance corrisponde precisamente a 9714 kilometri, 8 ore di fuso orario, 12 ore di volo. Non facile. Ma più facile di quanto pensassi. Prima dei blocchi aerei e del lockdown italiano riuscivamo a vederci un mese sì e uno no. Perché lui è un santo e da un anno vive sotto l’effetto del jet-leg pur di stare con me. Sta qui un mese, poi torna in Giappone per tre o quattro settimane, poi torna da me.
Io sono stata in Giappone solo una volta. Ci sarei tornata a febbraio ma era già scoppiata l’epidemia e il Giappone era il secondo paese più colpito dopo la Cina. Non me la sono sentita di affrontare il viaggio. Avevo paura e così, anche se a malincuore, l’ho annullato. E allora lui, molto più coraggioso di me, si è messo in ferie e ha prenotato subito un volo per Milano, dove e è atterrato il 7 marzo, la sera in cui è uscita la bozza del primo decreto con cui Conte chiudeva la Lombardia fino al 3 aprile. Sì, la sera dell’esodo dei fuori sede verso Sud, quella sera lì. Quando ho letto su Repubblica la bozze del decreto lui era appena atterrato a Roma, dove aveva fatto scalo, ed era in attesa del volo per Milano. Aveva solo dieci minuti per decidere se prendere quell’aereo e rischiare di rimanere bloccato a Milano fino al 3 aprile, o restare a Roma e tornare indietro dopo qualche giorno. Ha deciso di venire a Milano e io, se possibile, mi sono innamorata un po’ di più.
Quella è stata la prima settimana e per noi, nonostante la paura e l’incertezza, è stata un po’ una luna di miele. Dieci giorni sempre insieme, 24 ore al giorno chiusi in casa. Poteva essere un incubo ma è stato come un sogno romantico e struggente scritto da Jane Austin e Emily Dickinson messe insieme. Sapevamo di avere poco tempo e lo abbiamo sfruttato al massimo. Dormire insieme, mangiare insieme, leggere sdraiati l’uno accanto all’altra rubandoci lo spazio sul divano, fare l’amore, mangiare, lavorare un po’, ma poco ché ormai il programma tv a cui lavoro lo stanno fermando, rifare l’amore, alternare intere stagioni di serie tv a maratone di telegiornali, avere un po’ più paura ogni giorno che passava, cercare di dimenticarla, ridere, chiederci se sull’aereo il virus potesse averlo contagiato e misurarci la febbre due volte al giorno, tirare il fiato scoprendo di non averla, ancora l’amore. Poi lui ha capito che le cose si stavano mettendo male, che presto avrebbero bloccato tutti i voli in partenza dall’Italia e ha provato ad anticipare il volo di rientro. Ci è anche riuscito, perché avere la residenza a Tokyo rientra nelle “indifferibili esigenze lavorative”. Così è partito, dopo soli sei giorni. L’ho guardato salire sul taxi dalla finestra del salotto, con i lacrimoni. Sapevo che era giusto così, non poteva giocarsi il lavoro. Aveva già rischiato abbastanza, anche in termini di salute, stando chiuso in un aereo per dodici ore. E stava per rifarlo.
La seconda settimana è iniziata con la presenza della sua assenza ovunque. Il rientro in Giappone è stato traumatico. Essendo stato a Milano, Lombardia, epicentro dell’epidemia italiana, lo hanno sequestrato insieme ad altri due italiani residenti a Tokyo. Li hanno isolati in una stanza, hanno chiesto loro di tornare in Italia, loro hanno detto: “Manco per il cazzo”, hanno chiamato l’ambasciata e il consolato, poi hanno atteso sei ore. Infine gli hanno infilato il tampone su per il naso e li hanno mandati via, con la promessa di restare in quarantena fiduciaria per 14 giorni, lasciandoli con l’angosciante dubbio sull’esito del test, che è arrivato soltanto il giorno dopo. Negativo. Dio, grazie.
In quel modo ipotizzavo, nel tentativo di rassicurarmi, che anche io, avendo frequentato soltanto lui, ero negativa. Al netto della variabile asintomatica. E così ho provato a ricordarmi che al di là della pandemia, io e lui a un certo punto saremmo stati comunque lontani e affetti da nostalgia acuta. Così ho impostato la mia vita “senza” di lui. Ho iniziato a occupare il mio tempo scrivendo, leggendo, guardando serie e film, facendo una sessione di ginnastica molto intensa la mattina e una sessione di yoga la sera, meditando e cucinando nuove ricette vegane. Ho sistemato cassetti, armadi, armadietti, mi sono liberata delle medicine scadute, delle cianfrusaglie, dei documenti accumulati, facendo tutto quello che lavorando non avrei mai avuto tempo di fare. Ho pulito il forno anche al suo interno e il balcone. Ho videochiamato persone che amo ma che non vedevo da tempo. Ho cercato di mantenermi intatta, facendo ordine all’esterno per portarne un po’ anche dentro, perché sentivo che qualcosa iniziava a scricchiolare, nonostante io cercassi di resistere. La tv, quando non guardavo qualcosa su Netflix o Sky, era sempre accesa su Rainews24, anche senza volume. Lui era con me, più volte al giorno, grazie a Facetime. Mi chiamava dalla sua quarantena giapponese e dal futuro, 8 ore più avanti rispetto all’Italia. La mia mattina il suo pomeriggio, il mio pomeriggio la sua notte, la sua alba la mia notte. Parlavamo a lungo, ci amavamo come potevamo attraverso uno schermo, le canzoni su Spotify, le poesie su whatsapp.
Nella terza settimana, quella parvenza di normalità che cercavo di tenere in piedi con tutte le mie forze, ha smesso di scricchiolare e si è frantumata in milioni di pezzi acuminati. E’ crollata sotto il peso della paura e della tristezza, aiutata dal fatto che la terza settimana di quarantena coincidesse con la settimana della sindrome premestruale, sempre molto faticosa. Ma mai come questa. Il crollo totale è arrivato la sera del 19 marzo, quando ho visto il corteo dei carri militari che silenziosi, nella notte, portavano via da Bergamo, la mia città, decine e decine di corpi devastati dal coronavirus. Non riuscivo a togliermi dalla testa che erano morti soli, senza l’abbraccio di un familiare. Ho iniziato a singhiozzare, con quel pianto che ti sembra di avere un punteruolo in gola e a un certo punto devi smettere perché non respiri più. Allora ti soffi il naso, respiri, ma poi ci ripensi e ricominci. E’ stato così per giorni. Non riuscivo a smettere. Cercavo di proseguire con le mie attività quotidiane, cucinavo, lavavo le tende, stiravo, leggevo scrivevo, pulivo i pavimenti, meditavo. Ma ogni cosa mi faceva piangere. I video che arrivavano via whatsapp sulla solidarietà e lo stare uniti, montati con le musiche new age, mi facevano piangere. I flashmob sul balcone mi facevano piangere. Le immagini del TG mi facevano piangere. Le ambulanze che risuonavano in strada mi facevano piangere. Le sue dichiarazioni d’amore mi facevano piangere. Le parole confortanti dei miei e i loro tentativi di farmi ridere mi facevano piangere. Piangevo sempre e non dormivo. Nonostante mi rendessi conto della mia enorme fortuna, perché non ero malata, la mia famiglia non era malata, il mio fidanzato non era malato e i miei amici non era malati, nonostante questo, pensavo a tutti quei morti e mi sembrava che mi avessero sollevato la pelle e che tutto il dolore del mondo ci si fosse infilato sotto. Lui mi mancava sempre, anche se erano passate solo due settimane dalla sua partenza e noi siamo abituati a ben altro. La differenza è che, di solito, sappiamo quando ci rivedremo. Poi mi è arrivato il ciclo. Ho continuato a piangere, forse un po’ meno disperatamente e con più mal di pancia.
La quarta settimana è stata uguale, precisa, identica alla terza. Ho perso la carta di credito, nell’unica uscita settimanale per fare la spesa. Questa è stata la novità della settimana. Le ambulanze mi sembravano diminuite, e anche i pianti. Cercavo di evitare ogni cosa, video, lettura, immagine, voce che potesse aprire la diga che ogni mattina provavo a ricostruire. Ci riuscivo a fasi alterne. Non dovevo pensare ai carri militari, quelli no, non ce la faccio, nemmeno adesso. Lui era sempre lì, a guardarmi dal futuro e dallo schermo dell’Iphone, ed era il mio pensiero felice. Con lui riuscivo a ridere.
La quinta settimana è appena iniziata. A volte sto bene, in piena accettazione buddista di quello che accade nell’universo. Poco dopo mi dispero, poi sto di nuovo meglio. Mi chiedo quando lo rivedrò, quando potremo tornare a volare tra Oriente e Occidente e abbracciarci a Tokyo, illuminati da una lanterna rossa. E’ uno shaker di emozioni, questa quarantena. Quello che so è che non volevo fidanzarmi, avevo una paura fottuta. Poi è arrivato lui, dal futuro, e mi ha cambiato la vita. Adesso la vita ce la sta cambiando la pandemia, e abbiamo tutti una paura fottuta. Ma intravedo la luce che filtra dal fondo del tunnel. Piano, ma filtra. La lascio entrare.
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